Nella storia della scienza capita di frequente che alcune branche di studi arrivino prima di altre in zone più profonde, a traguardi che fanno progredire tutta la conoscenza umana. Spesso alcuni studi che sembravano poco credibili si sono dimostrati anticipatori di nuovi territori scientifici.
La teoria delle costellazioni familiari, la psicogenealogia e tutte le ricerche transgenerazionali sembrano trovare ulteriori conferme ad ogni passo, seppure inizialmente sembravano studi troppo di confine.
Fino a qualche anno fa infatti sostenere che certi traumi, certi eventi o situazioni vissute da un individuo, vissuto in un lontano passato, magari più di un secolo fa, avessero una risonanza sui discendenti dell’individuo interessato, sarebbe stata bollata come un’affermazione fantascientifica.
Ad oggi invece sembra chiaro che al pacchetto di informazioni biologiche che passano di generazione in generazione, si aggiunga anche una sorta di eredità psicologica che può contenere anche ricordi ancestrali, assolutamente non compresi nella memoria conscia, che si ripercuotono nel presente.
Il lavoro fatto dalla psicogenealogia in questo ambito è assolutamente straordinario, ma è davvero interessante notare come anche la psicobiologia sia arrivata a confermare tali evidenze.
Che cosa è la psicobiologia?
La psicobiologia è una branca delle neuroscienze che va a studiare i comportamenti in relazione alla struttura e alla fisiologia, ponendo la sua attenzione in particolare sul sistema nervoso centrale.
Con la parola “comportamenti”, è bene specificarlo onde evitare fraintendimenti, si intendono azioni fisiche ma anche processi mentali: attenzione, memoria, percezione, apprendimento…
Questo ramo della scienza si è sviluppato soprattutto attraverso gli studi sugli animali che hanno portato allo sviluppo di teorie e sperimentazioni. Senza dubbio vanno citati personaggi straordinari come B.F. Skinner, e i più celebri Konrad Lorenz e Ivan Pavlov.
L’approccio psicobiologico stretto
La psicobiologia e la neuropsicologia tendono a mantenere un approccio riduzionistico, meccanicistico, e molto spesso secondo quest’ottica ci si limita ad osservare la relazione tra stimolo e risposta, indicando la zona del cervello interessata.
Come obiettivo finale questo tipo di approccio ha quello di creare una mappa precisa e perfetta del cervello e del sistema nervoso. Da quest’angolazione la coscienza umana è considerata come un insieme di neuroni, di risposte elettriche stampate nella memoria.
L’esperimento di Ivan Pavlov
Celeberrimo in tal senso l’esperimento di Ivan Pavlov, che riportiamo brevemente, che ha dato nascita anche all’espressione “riflesso pavloviano”: alcuni cani che Pavlov usava per gli esperimenti dimostravano un aumento della salivazione nel momento in cui si stava per dargli da mangiare la carne.
Lo scienziato dunque iniziò a fare suonare una campana ogni volta che si stava per servirgli la carne, in modo da variare lo stimolo mantenendo la risposta: i cani iniziarono a mostrare un riflesso involontario, ovvero un riflesso pavloviano appunto.
Ogni volta che la campana suonava, la loro salivazione aumentava abbondantemente. Il cervello dei cani oramai aveva abbinato il suono della campana all’arrivo della carne.
Altri approcci più aperti
Vi sono però scienziati come Francisco Varela e Humberto Maturana che hanno tenuto un approccio più aperto e meno meccanicistico a questo genere di studi. Per loro infatti la coscienza non è costituita soltanto da neuroni e per capirla a fondo, soprattutto nella sua formazione, è necessario tenere conto anche del corpo e del mondo sociale.
Questi due scienziati sono gli autori di un metodo di indagine molto particolare: una neurofenomenologia che non prende in esame animali o altri esseri umani, ma sé stessi. È lo scienziato stesso a fungere da propria cavia.
Molto interessante anche il contributo dato alla psicobiologia anche da Jean Claude Badard con l’interpretazione degli esperimenti e della ricerca fatta da Henry Laborit. Secondo questa interpretazione infatti esiste un cervello biologico, differente dal cervello razionale.
Questa affermazione porta alla conseguente conclusione che dentro l’essere umane sono presenti memorie razionali e memorie biologiche che operano in contemporanea. Una elabora i suoi dati nel cervello, l’altra nell’intero sistema biologico.
In sostanza il corpo registra una serie di conflitti, che possono anche risalire ad epoche precedenti che si presentano sotto forma di malattie, sintomi, predisposizioni. Non a caso la parola “somatizzazione” allude propria ad una traduzione in linguaggio e materia corporei.
Badard e Laborit sostengono che di fronte ad un problema di grave entità, di tipo biologico, come può essere una sofferenza o un dolore fisico, si può rimanere sani soltanto se si ha la possibilità di fuggire o di combattere. Quando queste due possibilità ci vengono precluse, l’individuo si ammala.
È un meccanismo interiore che si attiva poiché il tasso di stress dovuto all’inibizione dell’azione spinge il cervello ad affidare la risoluzione del problema ad un gruppo di neuroni collegati con un tessuto. In estrema sintesi il problema per cui c’è inibita l’azione viene scaricato su un tessuto che ha una sua funzione corporea.
È un principio di adattamento che rimane scritto nella nostra memoria e nei geni (ed è quindi trasferibile alle generazioni successive), un principio evolutivo che è possibile mettere in evidenza con un esperimento condotto proprio da Laborit.
L’esperimento di Henry Laborit
Laborit fece un esperimento molto interessante che dimostrava chiaramente quanto esposto poco sopra. Egli prese infatti due cavie che mise in una gabbia divisa in due “stanze”. In una di queste, dopo un segnale luminoso e acustico, veniva attività l’elettricità e le cavie prendevano la scossa.
Questa scarica veniva data ogni 30 minuti per 10 secondi. In breve le cavie al segnale cambiavano rapidamente stanza e si mettevano al sicuro in quella non elettrificata.
Fin qui siamo sempre nel meccanicismo dell’approccio classico tipico della neuropsicologia. Le cavie alla fine del test sono state messe sotto esame per controllare i loro parametri vitali: godevano di ottima salute.
La seconda tranche di test prevedeva che le cavie questa volta venissero messe nella gabbia senza poter evitare la scossa.
Ogni volta che scattava il segnale luminoso e acustico le cavie si alzavano in piedi e combattevano tra di loro. Anche qui alla fine del test le condizioni di salute delle cavie erano ottime.
L’ultima fase del test prevedeva che la cavia venisse chiusa nella gabbia nelle stesse condizioni precedenti, ma ognuna da sola, assolutamente impossibilitate a fare alcunché: nel momento in cui arrivava il segnale dovevano accettare passivamente la scossa. Alla fine dei test tutti i valori biologici erano sballati e le cavie erano malate.
Psicologia transpersonale e transgenerazionale
La psicobiologia, nel suo approccio più aperto, considera l’aspetto corporeo-biologico, come visto poco sopra, ed anche quello storico- genealogico degli individui. Infatti ciò che viene scritto nei geni può essere trasmesso alle generazioni successive.
Ecco allora che la psicobiologia conferma la visione di altre discipline psicologiche e dei lavori fatti da psicologi transpersonali come Wilber e Grof. Questi hanno infatti ripreso usanze tribali andando a somministrare delle sostanze psicotrope ai pazienti per andare ad espandere la loro coscienza e le loro percezioni.
Attraverso questi mezzi hanno potuto verificare fenomeni come l’estasi, le esperienze extra corporee, i viaggi astrali, le trance… in questo modo hanno potuto utilizzare lo stato alterato di coscienza per riconnettere l’individuo con l’inconscio collettivo, che riconnette la persona singola con le sue radici, ai propri ambienti, alla memoria familiare e non solo.
Possiamo dunque dire che la psicobiologia conferma quanto viene evidenziato da Anne Ancelin Schützenberger e dai suoi “eredi” della psicogenealogia, che può essere anche chiamata psicologia transgenerazionale.